VIVERE ALLA COLLINA
di Maria Toso
“Che meraviglia!!!” i bambini saltellano dalla gioia nel vedere la grande novità: l'acqua scende dal rubinetto della cucina....
Quei bambini eravamo noi: i miei fratelli ed io, che da qualche tempo abitavamo con i genitori la grande casa della Collina, ma l'acqua arrivava solo al piano terra, dove c'erano le stalle, per la casa si riempivano i secchi, piccoli e grandi e si portavano su per una scala scura e ripida fino al primo piano. Fu un gran sollievo per i nostri genitori poter evitare almeno quella fatica, questo grazie al caro Michelin Calvi, grande amico di papà, allora Presidente dell'Opera Pia Siccardi.
In quella casa dalla vista mozzafiato abbiamo lasciato il cuore; i nostri genitori ci hanno lasciato la schiena; per noi – sebbene isolati dalla vita del paese – era facile saltare su è giù per quelle fasce strette strette tutte muretti e pietre, per gli adulti voleva dire portare tutto sulle spalle: l'erba per gli animali veniva raccolta nei “fâdà “ che la mamma portava sulla testa, la frutta e la verdura era sistemata nelle “cavaĝne” o nelle “corbe”, e portata a spalla, la legna per la stufa veniva portata a braccia o in cassette; inoltre Papà zappava “a mano”ossia con la zappa a tre punte, solo negli ultimi anni utilizzava una motozappa “pasquali”.
Il primo mezzo di trasporto della famiglia fu una grossa bicicletta che papà utilizzava per poter vendere la frutta o la verdura; la bicicletta era munita di una piano di ferro abbastanza largo su cui egli sistemava le cassette con dentro i suoi prodotti - particolare cura per i fichi dorati, avvolti nelle foglie verdi – legava il tutto per bene per recarsi nel negozio di Noli – tempo permettendo – perché spesso alla prima curva il vento rovesciava il suo castello.
Con la stessa bicicletta Papà ci portava poi a scuola, nei primi anni delle elementari, mia sorella ed io: ci legava con delle cinghie alla stregua delle cassette di verdura, e via, con la cartella ben stretta sulle gambe per quella velocità supersonica.
Ma ben presto abbiamo cominciato ad andare a piedi , si percorreva il sentiero stretto e ripidissimo che solcava tutta la collina da cima a fondo, si attraversavano le fasce dei vicini di sotto stando ben attenti a non toccare neanche una foglia, si arrivava alla scaletta chiusa da una porticina oltre la

quale, dopo aver cambiato le scarpe, si raggiungeva la civiltà.
Ci voleva almeno mezz'ora di strada per arrivare lassù, la vita quindi era isolata dal resto del mondo, solo l'immancabile amica Nanda arrivava a portarmi i compiti – una anno che avevo fatto una lunga malattia – prima di andare a casa, facendo impensierire la mamma che la aspettava per pranzo.
Come tradizione delle famiglie contadine tutti dovevano lavorare per quello che potevano, anche i bambini, e quindi, dopo la scuola il compito di ognuno di noi era quello di riempire un cestino di erba a testa per i conigli, usando dapprima un coltello senza punta e poi una piccola falce.
Di mano in mano che si diventava grandi aumentavano i compiti: da innaffiare col solco, a raccogliere la frutta, portare la legna in casa per accendere la stufa, fare i lavori domestici .
In quegli anni l'attività principale era coltivare della frutta, specie le albicocche – piccole con i pallini rossi, buonissime – ne raccoglievamo quintali e quintali, che venivano vendute a trenta lire al chilo, di cui a noi spettava la metà, perché eravamo a mezzadria.
E poi c'erano le bestie nella stalla da accudire, fonte più di sostentamento che di reddito, a questo proposito non potrò mai dimenticare un doloroso evento che colpì la famiglia in un freddo inverno.
Per l'occasione noi bambini fummo allontanati perché quelle erano “cose da grandi”, fu per noi un pomeriggio di festa a scorrazzare per i vicoli di Spotorno e raccogliere coccole dalla care zie del “monte”.
Quando alla sera, tornammo a casa la nostra euforia si spense subito, c'era una aria grave e solenne, e la mamma con gli gonfi: “sono nati due vitellini – e sono morti – adesso dovremo passare l'inverno con la sola vendita del latte”.
Non avrei mai pensato che vivere anche inconsapevolmente così a contatto con la natura, sarebbero rimaste indelebili nella mente e nel cuore le sensazioni vissute: dalle notti di luna piena squarciate dal canto di mille rane d'estate, o dal risucchio del mare d'inverno; dal sapore delle giuggiole alla dolcezza di un sacchetto di noci come regalo di compleanno.
L'evoluzione dei tempi trasforma tutto e ci lascia orfani delle “ nostre cose”; e pensare che una volta, mentre pascolavo le pecore mi ero distratta - forse a rincorrere i miei sogni - e fui punita severamente per aver lasciato brucare i germogli di una piccola pianta di fico. Quando dopo anni ho rivisto quel fico coperto di rovi mi sono chiesta se valesse tutti i miei pianti.
Stare lassù era una scelta di vita, che ci ha plasmato nella semplicità e nella continua ricerca dell'essenziale, come dice una filastrocca che mio Padre recitava fino a tarda età - l'aveva letta da ragazzo sul “la Domenica del Corriere” e non l'aveva più dimenticata - essa racchiude tutta la filosofia del suo modo di essere: “L'UOMO CONTENTO”

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