UN RICORDO DI DON NINO QUAGLIA


di Bruno Marengo

“Guardando questa casa ed oratorio penso ai buoni spotornesi ed ai cari ed indimenticabili ricordi”. Sono queste le parole che don Quaglia mi scrisse, molti anni fa, dietro l’immagine della chiesetta della SS. Annunziata.
Parole di affettuoso ricordo; le stesse che mi ripeteva quando andavo a visitarlo a Sanda, al Santuario di Savona e poi durante tutta la sua lunga malattia dal Cottolengo di Torino (dove subì l’amputazione di una gamba), al Santa Corona sino alla Presentazione di Loano.

Parlavamo di “lontane cose comuni”: la messa in latino, da servire prima della scuola e la domenica in “pompa magna”, le novene dei morti, la benedizione delle cascine, la costruzione del presepio, le processioni, le mascherate a carnevale, le ciambelle della Rosa (perpetua brava e brontolona), le prime gite “fuori porta” con tutto il paese dietro (grandi e piccoli) al Santuario di Mondovì (dove scoprimmo la televisione), a Nizza e a Montecarlo.
Quei campeggi estivi organizzati alla buona a Entracque ed a Certosa Pesio. La costruzione del “campetto dell’Esperia” sotto la casa di Camillo Sbarbaro, che ci osservava incuriosito.
Le interminabili partite di pallone e la casetta dell’Annunziata (con la dedica in rima dialettale di Cipriano Toso) dove noi ragazzini, tutti sporchi e sudati, tra un suo racconto (celeberrimo quello del “miracolo della campana dell’orologio di Orco”, capitato durante la guerra di liberazione) ed interminabili discussioni “sul bene e il male”, sul “giusto e l’ingiusto” e la nostra coscienza, trascorrevamo quei “magici momenti” che spesso mi ritornano alla mente, nell’agire quotidiano, attraverso un nome, un volto , una parola, una sensazione. E noi, quei ragazzini sporchi e sudati, gli siamo sempre stati riconoscenti perché, nella sua semplicità, ci ha trasmesso dei valori profondi in una età così importante per la nostra formazione. La perdita dei genitori, quando era ancora in tenera età, aveva forse contribuito a dargli una grande sensibilità che lo fece sempre partecipe delle gioie e dei dolori degli altri, in particolare dei giovani. Era molto legato al fratello Flavio, anche lui sacerdote che, parroco di Tosse, si assunse, con l’aiuto dei tossesi, il pietoso compito di estrarre e comporre le salme delle vittime del tragico bombardamento del 12 agosto 1944.
Ma con Don Quaglia parlavamo anche del presente: voleva sapere tutto della vita del paese nonostante fosse rimasta in lui, anche se non me ne parlava mai in modo esplicito, un po’ dell’amarezza di quando, dopo sedici anni, dovette cessare il suo Ministero a Spotorno. Prima di andare via, si era dato molto da fare per la costruzione delle opere parrocchiali.
Ha sempre rispettato la mia posizione di “non credente” e mi ripeteva spesso che importante è l’essere a posto con la propria coscienza, l’agire guardando al bene.
L’ultima volta che lo vidi, parlandogli di una società malata attraversata da egoismo, intolleranza e forme di razzismo, dovetti sembrargli troppo pessimista perché mi interruppe esclamando: “Vedrai che ce la faremo… dobbiamo credere in un futuro migliore, più giusto”.
Parole di speranza, che hanno contrassegnato tutta la sua vita, rivoltemi dal fondo del suo, mai perso, semplice e sereno ottimismo, anche se costretto in una carrozzina da invalido. Ora riposa nella parte vecchia del cimitero del Santuario di Savona.

Bruno Marengo